PORTE | Gianfranco Tassi

P O R T E

Gianfranco Tassi

22 Aprile | 16 Maggio 2021

[…]

Con il richiamo di questo Amore e la voce di questa Vocazione

Non abbandoneremo la nostra esplorazione

E la fine del nostro esplorare

Sarà arrivare dove partimmo

E conoscere il luogo per la prima volta.

Attraverso la porta sconosciuta, ricordata,

Quando l’ultimo lembo di terra da scoprire

È quello che era il principio:

Alla sorgente del fiume più lungo

La voce della cascata nascosta

E i bambini nel melo

Non intesi, perché inattesi

Ma uditi, appena uditi, nel silenzio

Fra due onde del mare

Presto ora, qui, ora, sempre…

[…]

(Thomas Stearns Eliot, Little Gidding, 1942)

Ogni giorno apro e chiudo molte porte. Compio questo gesto in totale soprappensiero anche se, a seconda dell’uscio che sto per varcare o lasciarmi alle spalle, il mio stato d’animo muta. Spesso è come se mondi attigui comunicassero per un istante e, in quel momento, la soglia è lo scenario di un’intrusione: la mia. Estraneo a quelli che sono i miei stessi luoghi che, già prima del mio arrivo, erano qui, non necessariamente in attesa, ma inermi e in potenza. Mi domando: “Quanto sono disposto ad aprirmi, per essere e per lasciare passare il mondo che mi circonda? Essere porta che dialoga e che non serra due realtà differenti?” 

Se guardo l’installazione di Gianfranco Tassi esposta in quello che sembra uno spaccato di una ”stagione all’inferno”, anzi, più precisamente, di quella stagione espositiva nelle vetrine di StudioDieci, che ha scelto quelle cortine vitree come possibili soglie tra le distanze di un mondo e la resistenza culturale di un Centro che, proprio quest’anno, celebra i cinquant’anni di servizio all’Arte contemporanea per la città di Vercelli, non posso far altro che domandarmi: “Chi sta bussando alla mia porta?”

È un brivido freddo quello che sento lungo i cardini della mia schiena; mentre ancora rimbomba quell’oscurità che pare senza fondo, provocata da un picchiotto, collocato al centro del mio petto, che l’artista ha scelto di utilizzare per richiamare la mia totale attenzione. Non lo ha fatto per gentilezza. Il suo gesto è come un’extrasistole improvvisa e violenta. Ciò che sta per attraversarmi potrebbe rimanere incastrato o graffiare le pareti  di un corridoio già segnato dalle troppe asperità della vita. 

Non posso sfuggire a tutti quegli sguardi che emergono dal nero che contraddistingue le sale di StudioDieci. Sono occhi d’infante, ma non infantili; l’innocenza l’hanno persa nella traversata di un mare che ancora non è stato deciso se è lì per unire o separare due coste della stessa terra. Sono occhi che non pretendono, ma sperano di essere incrociati, conosciuti, ri-conosciuti da altri occhi. 

Chiedo aiuto a Jean-Luc Nancy:

“L’intruso si introduce con la forza, la sorpresa o l’astuzia, in ogni caso senza diritto e senza essere stato ammesso. Ci deve essere dell’intruso nell’estraneo, altrimenti perde la sua estraneità. Se ha diritto d’ingresso e di soggiorno, se lo si aspetta, allora non è più intruso e neanche estraneo. Così non è logicamente accettabile né ammissibile dal punto di vista dell’etica, escludere ogni intrusione nell’arrivo dell’estraneo.

Una volta che c’è, se rimane estraneo, e per tutto il tempo che lo rimane, invece di “neutralizzarsi”, il suo arrivo non cessa: continua a venire e non cessa di essere un’intrusione; continua ad essere senza diritto e familiarità e senza abitudini, ma rimane un disturbo, un turbamento nell’intimità. Altrimenti l’estraneità dell’estraneo viene eliminata prima che egli abbia superato la soglia. Accogliere l’estraneo vuol dire anche sentire la sua intrusione”*.

Via mare. Via terra. Comunque alla deriva. Perché l’altro non può che essere estraneo. Nei secoli l’umanità si è trovata ad affrontare l’idea degli opposti: in amore, nella quotidianità, nel sociale; a volte è stata in grado di comprenderne il valore aggiunto, altre ancora ha preteso di arroccarsi su primati che, anche solo per poter essere enunciati, necessitavano comunque dell’altro per sottolinearne  caratteristiche e priorità.

Per poter dire Io ho bisogno di Te. Per arrivare a dire Noi devono venire meno i singoli Io che andranno a comporlo. Sembra così facile da scrivere eppure, quando tento di compiere questo passo, mi accorgo che persino le mie gambe sono lì a ricordarmi della necessità di un due per garantirmi l’equilibrio, ma nonostante ciò, resta ugualmente difficile e tutt’altro che immediato. Ecco dunque che, nell’afferrare la maniglia del mio essere, mi ritrovo ad aprire porte sempre nuove e, lungo quel confine mobile, incontro  definizione e scambio. Esattamente come l’Arte che, ancora una volta, non ha paura di essere mare, ma al tempo stesso ponte, ovvero porta aperta per la cultura che guarda avanti. Arriverà il giorno in cui potrò ancora sedermi al suo tavolo e dialogare con altri commensali; concedermi una cena, non necessariamente “ultima”, ma che, esattamente come quella biblica, sarà una soglia spalancata per la libertà. Alla sua mensa non vi sono estranei perché Lei stessa è straniera e nel suo essere “extraneus”, ovvero “esterno”, necessita di un “interno” nel quale depositare e mettere al riparo Bellezza. Forse è stata Lei a battere poco fa al mio picchiotto.

Sorrido…

Lascio entrare.

Diego Pasqualin / StudioDieci

PORTE di Gianfranco Tassi è la mostra che Studiodieci ha scelto di presentare per le celebrazioni della 76° Festa della Liberazione

*Francesca Alfano Miglietti, Nessun Tempo, nessun corpo…, Skira editore, Ginevra-Milano, 2001. Pag.236