Dobbiamo sacrificare il Sé per scoprire la verrà di noi stessi, e specularmente dobbiamo scoprire la verrà di noi stessi per sacrificare noi stessi. Verità e sacrificio, verità di se stessi e sacrificio di sé, sono dunque strettamente e profondamente collegati.
(Michel Foucault)
Parafrasando il titolo di un noto romanzo di Milan Kundera ritengo che il giusto nome per questa personale di Laura Schilirò sia “L’insostenibile pesantezza dell’essere”.
Volubili non nella forma, ma allo scorrere del tempo, le opere presentate hanno tutte un filo conduttore che le accomuna, che le lega, che le inchioda.
E’ negli anfratti più oscuri dell’ombra che bisognerà discendere, nelle pieghe, o piaghe, che si riveleranno i duplici risvolti che la fretta contemporanea spesso ci obbliga a tralasciare.
Varcando la soglia si accede ad un’ambiente notturno, intimo, seppur siderale, dove l’autoritratto dell’artista giace isolato, solo e addossato alla parete. Luce radente. Ruggine. Migliaia di chiodi ricoprono l’intera superficie modellandone i piani per costituire i rilievi che compongono il volto della giovane ragazza. L’immagine incute disagio per il forte contrasto tra la leggerezza dell’aria che attraversa tutte quelle piccole sporgenze ferrose e il peso che contraddistingue il metallo. Un mantra alla bellezza giovanile. Un mantra per illudersi che il tempo possa in un qualche modo fermarsi. Eppure è evidente. Non vi è alcuno scampo perché Kronos ci ha traditi e l’accesso alla sua isola ci è, per ora, ancora negato; così, come farfalle, voleremo altrove, trasportati dal vento faremo vibrare le nostre ali edulcorate sotto le luci di una centrale elettrica, verso lo schermo di una televisione accesa nelle caldi notte d’estate affinché la leggerezza dell’immagine di facciata che abbiamo costruito alleggerisca il pesante incontro quotidiano con il nostro Sé.
Ma non basta. Per Schilirò non può esser messa in discussione solo la fatua esteriorità e sotto osservazione viene posta addirittura la durata di un pensiero. Un macabro spettacolo allestito magistralmente ci permette di discernere l’oscurità della psiche. Sospese. Imprigionate. Due piccole candele antropomorfe simboleggiano i pensieri reconditi che bruciano in ognuno di noi. Ma non basta ancora; sarebbe banale un’interpretazione simile. Il soggetto qui non è il pensiero, ma la sua durata. Esatto! Come lo scorre del tempo arrugginisce i chiodi e solca il nostro volto di rughe, così i pensieri affievoliscono. Bruciano. Ardono. Infiammano. Eppure, come cera fusa, scivolano verso il basso per perdersi nell’oscurità dell’oblio.
M E N O 3 0
Diego Pasqualin per Studiodieci