[IMMAGINI, PAROLE, SUONI CONTRO IL CANCRO]
STUDIO DIECI in anteprima dell’evento in svolgimento al Museo Borgogna il 2 ottobre
26 | 30 settembre
MOSTRA DI FOTOGRAFICA “LETTERATURE URBANE 1.1”
La mostra sarà inaugurata il 26 settembre alle ore 18.
Opere di
Andrea CHERCHI, Guido COME, Carla CROSIO, Maria Teresa DEGRANDI, Lucia FORSENO, GODART, Chiara MAZZERI, Gianpiero PRASSI, Sergio SERENA, Carlo TRUFFA e Micol VILLA
corredate da testi di
Alessandro BARBAGLIA, Lina BESATE, Luisa FACELLI, Elisabetta DELLAVALLE, Alberto ODONE e Sandra RANGHINO
Testo critico di Diego PASQUALIN.
MUSEO BORGOGNA
giovedì 2 ottobre, alle ore 21
si terrà lo spettacolo LETTERATURE URBANE 1.1
Nel corso della serata saranno proiettate le foto realizzate, commentate da testi interpretati da Gianluca MISCHIATTI e dalle improvvisazioni musicali di Francesco ARONI VIGONE.
Saranno disponibili piccoli portfolio legati da Ivo GUZZON.
Si tratta di due eventi che, a mezzo della coniugazione di cultura e solidarietà (con il coinvolgimento di cultori e professionisti della fotografia, letteratura, musica e della cultura in generale), sono destinati a promuovere una maggior sensibilità circa la lotta al cancro, nonché a raccogliere fondi da destinare all’A.I.R.C. (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro).
L’intero ricavato di Letterature Urbane 1.1, infatti, sarà devoluto all’A.I.R.C. (Associazione Italiana per la Ricerca sul cancro)
Tutti i partecipanti alla realizzazione dell’evento hanno donato il frutto del loro ingegno e del loro impegno in maniera totalmente disinteressata.
L’ingresso a entrambi gli eventi è gratuito.
L’EVENTO SI SVOLGE CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI VERCELLI , IN COLLABORAZIONE CON IL MUSEO BORGOGNA E IL CENTRO SERVIZI PER IL VOLONTARIATO DI VERCELLI, CON L’AIUTO DI STUDIO DIECI, FLAVIO ARDISSONE E MOVIE PLANET.
Come l’acqua si scorre verso il mare. Una piccola pendenza, un battito all’interno del cuore e così via, si scivola, si seguono strade immerse nel pantano, corrodendo sassi apparentemente inermi che potrebbero dirci di chi, prima di noi, ha tentato l’azzardo. Si affrontano guadi e ancora giù, sempre più in là. Poi si arriva alla pianura, la scrosciante discesa rallenta il suo corso e grosse pozze d’acqua, ferme solo apparentemente, si aprano davanti ai nostri occhi come un finto “mare a quadretti”, acquatico labirinto di canali, rogge, storie e geografie che ci invitano ad ascoltare il vivere in quell’agglomerato urbano che abbracciano, o isolano, di nome Vercelli.
Così, come l’acqua, sono arrivato in città; seguendo l’invito di Antonio Buonocore a rintracciarne in quella cartina non solo geografica, ma anche e soprattutto poetica, gli undici artisti da lui invitati per il progetto Letterature Urbane uno.uno che in sinergia con altrettanti autori letterari hanno dato vita a questa singolare lettura del luogo.
Svariate le interpretazioni, infinite le possibili declinazioni del sentire contemporaneo in grado di trasformare l’asfalto in un madrigale in cui le voci, le strade, a ritmi altri di tempi distratti ci svelano anfratti abitativi ed esistenziali di questa comunità; così dicendo, ogni scatto fotografico, ogni componimento, può essere interpretato come un’attenta analisi del modo di relazionarsi tra l’uomo dell’oggi e il centro che lo circonda. Ma quale centro? Sorge spontaneo domandarsi quale potrebbe essere una definizione di centro. Le strade sono immobili. I palazzi fermi, ma non immobili di fronte allo scorrere del tempo. Tempo che è come una linea d’orizzonte che scorre sempre più in là. E gli abitanti? Anche quelli corrono veloci nell’intento di rincorrere il continuo scappare della vita; così si sfuocano davanti ai nostri occhi, incapace di immortalare con differenti tempi d’esposizione i molteplici ritmi dell’esistenza che animano il centro, perché il centro contemporaneo, altro non è che il singolo, o solo, individuo. Tempi Diversi (Maria Teresa Degrandi – Alberto Odone).
Accade che un giorno ci si fermi perché si è troppo stanchi e la distanza troppo distante. Così ci si siede su un bus. Ci si lascia scorrere per quella manciata di minuti osservando fuori dal finestrino. Conosciamo la strada e la osserviamo non curanti perché lì da sempre, è lì mentre siamo altrove, come il magico incastro di scatole cinesi siamo scappati oltre quei grattaceli problematici che offuscano un limpido orizzonte, così alti da infastidir le nuvole e con fondamenta così profonde da intaccare anche le viscere più profonde dell’animo. Lo sguardo involontariamente si è abbassato; gli occhi hanno smesso di guardare lo scorre delle facciate per scendere verso l’asfalto, verso la strada. L’analogia pare ora evidente e gli incroci, da meri svincoli, riflettono non solo direzioni, ma possibili decisioni. Stop! Fermata prenotata. Ah no! La mia è la prossima. Indagine di una fotografa al di sopra di ogni sospetto (Micol Villa – Micol Villa). La porta si apre e ad un tratto si è travolti da un marasma inferocito di formiche scattanti e in delirio. Non ci si può fermare perché il rischio è quello di esser travolti senza giustificazioni poiché forti della falsa autorizzazione del: “E’tardi! Sono in ritardo! Non ho tempo!”. Gli uomini e le donne hanno smesso di parlare perché il linguaggio richiederebbe un’interazione, un avvicinarsi all’altro che la città offre e nega al contempo. Così le vetrine vendono possibili abiti che si potrebbero vestire, tipologie di persone che si potrebbe Essere, cosicché si possa comunicare e dedurre ciò che Io sono con quel che appare, in quel continuo défilé che la strada impone. Urbanumano (Chiara Mazzeri – Chiara Mazzeri).
Viene la notte. Quella spaventosa ed affascinante incognita che solo una notte cittadina può offrire. Le ombre si allungano e il nero diventa più nero perché rappresenta ciò che non è illuminabile, per cui Ombre nel quale si tende a far scivolare ogni rimosso o tutto ciò che alla luce, la città bene, obbliga a negare. Un ponte sull’incognito. Un ponte su una strada della quale non si conoscono né l’inizio né la fine, perché cambia e svanisce al primo raggio di luce che ti riporta indietro sulla sponda del dicibile. Alto è il prezzo da pagare per le celate scabrosità e Caronte non concede sconti. Night (Godart – Godart).
Dentro alle segrete mura della propria casa tutto è ammesso, le pareti nascondono e proteggono, ci avvolgono e difendano da i gelidi occhi estranei alla propria intimità. E per chi una casa non può più possederla? Quale sarà il suo destino? Perché la città è anche questo. La città ama solo se stessa ed auto esclude chi potrebbe intaccarne il decoro delle sue belle ed eleganti vie del centro. Per cui via! Verso l’esterno. Verso strade meno visibili perché come polvere sotto al tappeto, lontano dai nostri occhi, può permetterci di credere che non sia volgare sporco, ma l’evidente e possibile avvallamento di un pavimento troppo vecchio, dissestato dalle vibrazione di una società asettica e distante, come Rovine (Giampiero Prassi – Giampiero Prassi) di fallimenti non solo economici, ma anche e, soprattutto, esistenziali. Dunque è inevitabile e violento il problema dei rapporti proporzionali e delle differenze. A seconda dell’altezza del punto di vista l’asfalto, meglio la vita, acquista una prospettiva diversa, perché chi è più vicino al quel nero suolo è in grado di percepirne sfumature e crudeltà rispetto a chi, distaccato, osserva dall’alto o, forse, solo distratto. Le crepe al suolo si trasformano in voragini per chi, come un cane in stretta relazione con le inferiorità umane, si trova costretto ad affrontare un mondo ad uso e consumo, aggiungiamoci pure, a misura, di pochi eletti. La città di Nina (Carla Crosio – Alessandro Barbaglia).
La strada insegna. La strada impone. Anche in una città come Vercelli non si è esenti da schemi preconfezionati che incasellano e catalogano gesti e forme altre dal pensiero comune, per cui i muri diventano lavagne sulle quali tentare di risolvere problemi con ulteriori incognite. Un gesto. Un atto liberatorio ed è subito poesia. Si ritorna adolescenti pieni di rabbia aggrappati a stralci di canzoni dove contestare è un partito preso, dove una firma è la prova visibile della nostra esistenza e l’insieme di tutti questi scarabocchi, la dimostrazioni di un disagio comune. Hip Hop Texture ( Lucia Forsero – Micol Villa).
Dietro ad ogni finestra non un stanza, ma un mondo. Oscure aperture sul fantastico, sulla libertà dell’immaginazione. Cosa si sta consumando dietro quel nero indecifrabile? Quali i movimenti, le parole, le geometriche in grado di determinare le posizioni tra le cose e gli individui? Guardo fuori e, al contempo, guardo dentro. Sogno. Divago. Vago con la mente nei corridoi di edifici cerebrali narrando a me stesso le trame di quei romanzi urbani, ma periferici, esterni alla grande storia perché immischiati al fare e sentire quotidiano, a quell’oggi che è sempre troppo oggi. Domani? Domani ci penserò! Chiavi (Guido Come – Lina Besate)
Basta! ho bisogno di una pausa. Ripiego al cartina stradale che fin qui mi ha guidato in questo percorso e la infilo in tasca. E’ ingombrante e non la potrò lasciar lì per molto perché scomoda e fastidiosa. Anzi, potrei liberarmene e vagabondare senza una meta precisa. Svoltare quando sarà il cuore a dirmelo, attraversare una strada stando attento a non esser investito, solo per poter osservare più da vicino l’oggetto che ha attirato la mia attenzione. Oppure, semplicemente, sedermi in un bar per parlare con qualcuno. Vagabondare. Si! preferisco vagabondare! Camminare con le mani dietro alla schiena e andare. Mi sono perso. Voi che per gli occhi mi passaste il core’ ( Andrea Cherici – Elisabetta Della Valle). Non capisco come sia possibile, ma nel mio girovagare di strada in strada, ho perso l’orientamento e senza volerlo, mi sono ritrovato fuori dal centro. Per fortuna ho conservato la cartina. La apro e mi rendo conto che vi sono segnate solo le strade principali del percorso e che quelle secondarie ed esterne non sono state nemmeno contemplate. Quindi, a cosa mi può servire se non possiede le informazioni di cui io necessito? Mi guardo attorno e mi rendo conto che qui, in periferia, gli edifici possiedono quel fascino decadente che solo il tempo e le storie di chi ha abitato questi luoghi sono in grado di infondere ed imprimere magicamente sui muri. Mi volto, ancora l’acqua. Il percorso non può che proseguire e mi incammino con il fiume al mio fianco. Bandiera rossa, bandiera rossa (Sergio Serena – Sandra Ranghino).
Cammino e osservo quel lento scorrere. Lascio Vercelli alle mie spalle perché l’acqua mi chiede di andare. La strada si fa più accidentale perché l’asfalto ha lasciato lo spazio allo sterrato che meglio si integra e dialoga con l’ambiente circostante. Nella mente riaffiorano alcuni volti, alcuni sguardi che i miei occhi hanno incrociato; si aggiungono anche gli spettri di un tempo passato, lo stesso passato dal quale discendo, il seguito della stessa storia che si tramanda e prosegue contemporaneamente. Incontro un anziano signore che mi guarda fisso accennandomi un sorriso, il cane affianco socchiude le palpebre per la troppa luce. Gli scatto una foto ed entrambi comprendiamo di essere il naturale divenire dello stesso racconto. Lo chiamavano Drôle (Carlo Truffa – Luisa Facelli)
Letterature Urbane uno.uno.
Diego Pasqualin per StudioDieci
Fotografie di Alessia TRIPODI